lunedì 27 ottobre 2008

208 di 2013 ; Gandhi, l'Apocalisse e Michelangelo

Stefano Armellin con il pezzo 208 di 2013
 del Poema visivo del XXI secolo :
IL VOLTO DEL MONDO E LA CROCE 1993/2013




Titolo : Gandhi, l'Apocalisse e Michelangelo "Un Satyagrahi non conosce la paura. Non ha quindi neppur paura di fidarsi del suo avversario. Se questi l'inganna venti volte egli è pronto a fidarsi la ventunesima poichè una fiducia implicita nella natura umana fa parte del suo credo".Gandhi.

"APOCALISSE...Non ci sarà nessuna specie di identificazione -mistica- con Dio: Gerusalemme é a misura d'uomo (Apocalisse 21, 17). Tutto é perfettamente terrestre. Il rapporto degli uomini con Dio é ancora espresso, nell'ultima pagina dell'Apocalisse, come rapporto di servitori che adorano (Apocalisse 22, 3; 22,9), secondo l'antico schema tradizionale dei ministri che -giudicano- insieme al re partecipando della gloria del suo regno (Apocalisse 22, 5), ammessi alla sua intimità (Apocalisse 22,4) come parenti e figli (Apocalisse 21,7), ricompensati in misura proporzionata al loro merito (Apocalisse 22,12)". Sergio Quinzio, Un commento alla Bibbia, pp.820

"Michelangelo sapeva di lavorare sul filo d'un rasoio, né soltanto a causa degli invidiosi in agguato. Temeva, non senza motivo, che dopo la sua morte i successori avrebbero alterato i suoi alti pensieri architettonici e si preoccupo' di fissare certi -riscontri- impegnativi, ma non a molto servì la precauzione.

Quando non gli era apertamente nemico l'ambiente artistico romano era diffidente...Michelangelo sapeva anche che l'irrazionale, se non trapassava in follia, imponeva gravi responsabilità religiose e morali, n'era angosciato...

Michelangelo ricusò la teoria e la precettistica, si assunse la responsabilità della trasgressione e della licenza anche questa era lecita se compiuta in un impulso d'amore. Così fu che la maggior chiesa della cristianità, l'immagine della Chiesa visibile, fu almeno nel pensiero di Michelangelo vecchio, la meno conformistica delle architetture.

Fu anche l'Opera in cui il non-finito non si pose più come dissolvenza della figura ma come superamento di sé e quasi autonegazione : l'arte non poteva più essere il prodotto di un pensiero -finito-.

Michelangelo sentiva che quell'Opera era legata alla propria estrema condizione d'esistenza. Aveva rinunciato alla figurazione, forse si chiedeva se fosse stato un atto d'umiltà oppure d'orgoglio.

In realtà l'essenza della sua scultura e della sua pittura, defigurata, era passata interamente alla architettura. San Pietro a Roma, dove certamente non fu problema di sintesi o unità delle arti, fu di fatto la più statuaria delle sue architetture : nel senso che conteneva e compendiava per la volontà dell'artista di esaurirsi totalmente nell'Opera, l'esperienza vissuta in tutta la vita...

Con il prevalere della vocazione religiosa sullo orgoglio dell'intellettuale s'imponeva nel pensiero di Michelangelo, la necessaria distinzione, nell'unità della Chiesa, tra i pastori e il gregge : una distinzione che, per lui, non era gerarchica, ma voluta dalla Provvidenza per la salvezza dell'umanità...si può essere grandi senza superbia e bizzarri senza peccato...

Nella lunga e tormentata storia di Michelangelo quest'opera incompiuta e sfigurata fu l'ultimo e più alto traguardo : progettando il nuovo San Pietro a Roma Michelangelo sapeva di dover unire la ritualità del tempio alla devozione corale dei fedeli : per questo, nel definire le grandi membrature e i sottili ornati, non curò la loro reciproca proporzionalità.

Né lo sgomentò anzi gli parve necessaria, la coesistenza di solennità e capriccio : e tuttavia l'una e l'altro contenne nel ritmo dell'inno o della litania : si può essere grandi senza superbia e bizzarri senza peccato...ancora una volta incompreso, Michelangelo predicò che la salvezza collettiva non era soltanto una tesi dottrinale, ma un bisogno straziante dell'umanità". Op.Cit.