martedì 16 novembre 2010

961 di 2013 ; Gesù Cristo

Stefano Armellin con il pezzo 961 di 2013
 del Poema visivo del XXI secolo :
IL VOLTO DEL MONDO E LA CROCE 1993/2013




Titolo : Gesù Cristo  "4. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato (Mt 27,46; Mc 15,34) 

La preghiera salmica di Gesù morente.




Marco scrive che Gesù, trascorso circa due o tre ore d’atroce agonia, grida:

«Eloì, Eloì, lamà sabactàni? che significa, Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). 

Matteo attesta invece che Gesù grida:

«Elì, Elì, lemà sabactàni? Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46). 

Nella traslitterazione dalla lingua semitica alla versione greca Marco echeggia la fonetica aramaica, trasmessa dalla sua comunità cristiana, e ne traduce il significato ai lettori di lingua greca. 

Matteo adotta invece la fonetica ebraica per il nome di Dio (Elì, Elì). Conserva inoltre la dizione aramaica per la domanda (lemà sabactàni) e ne traduce il senso nella lingua ellenistica. 

Possiamo dedurre che Gesù può aver pregato in aramaico, la lingua materna oppure può aver pregato in ebraico, la lingua largamente usata nelle liturgie sinagogali. 

L’espressione di Marco è la più probabile.

Quella di Matteo è d’altronde la più corrispondente all’originale ebraico (Sal 22,1).

Nell’ora degli olocausti del mattino e della sera i giudei recitavano la formula di Fede sull’alleanza divina. Riconoscevano che Dio è unico, misericordioso e potente salvatore. 

Dichiaravano quindi di volerlo servire con fedeltà. I malati gravi prima di perdere la coscienza, ripetevano la stessa formula di Fede e attendevano che Dio li guarisse. 

I perseguitati morivano, recitando un salmo, che veniva utilizzato nelle liturgie del tempio di Gerusalemme. 

Il Talmud babilonese nel trattato sulla sessantunesima benedizione riferisce che l'illustre Akiba († 135), uno dei migliori maestri del Talmud, teologo molto stimato dai suoi studenti per la sua povertà e per la sua fedeltà alla Legge, disobbedì ad un ordine di Rufo, governatore romano. 

Arrestato, fu imprigionato e condannato a morte. Verso l'ora dell’olocausto serotino (Es 29,38; Nm 28,8) fu condotto dalla prigione al luogo della pena mortale, dove venne torturato con degli uncini. 

Per dimostrare ai suoi discepoli che perseverava fino all'ultimo respiro nell’osservanza della Legge, recitò la professione di Fede, dedotta da tre testi biblici ( Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,31-41) e avente come inizio questo puro abbandono all’amore tenero e premuroso di Dio: «Ascolta Israele: Il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6,4) .

Durante la seconda guerra mondiale molti ebrei entrarono nei forni crematoi, recitando la stessa professione di Fede.
Nel momento della sofferenza mortale Gesù sa che la Legge divina maledice i malfattori crocifissi. 

Potrebbe rivendicare i suoi diritti di Figlio prediletto del Padre e ripetere la professione di Fede ebraica, imparata fin dall’infanzia. 

Potrebbe inoltre invocare Dio, proferendo parole di amore e di fiducia come quelle contenute nel salmo 103. Preferisce invece citare le parole iniziali del salmo 22, dove l’orante esordisce in modo altamente preoccupato, ma prosegue e termina la preghiera con un atto di fiducia in Dio, fedele all’alleanza. 

Nella tradizione giudaica, chi pronuncia ad alta voce le prime parole di un salmo, intende applicarne tutto il senso.
Nei raduni liturgici o nella preghiera personale Gesù ha ripetuto parecchie volte il salmo 22. Nel massimo spogliamento della Croce conserva la coscienza della sua figliolanza eterna e del suo rapporto con Dio. 

Non percepisce tuttavia la soave presenza del Padre e dello Spirito Santo, che nel silenzio, condividono assieme a lui le conseguenze del peccato, della ribellione e dell’aggressione umana ". (segue) 

Padre Felice Artuso