Sorretti dalla speranza della risurrezione finale, verso l’anno 50 sugli ossuari di Talpiot, sobborgo di Gerusalemme, i giudeocristiani scrissero in greco “Iesou ioứ” (Gesù aiutami) e in aramaico “Yeŝu alôth” (Gesù fai risorgere il morto) .
I gentili chiamavano necropoli (città della morte) il luogo di sepoltura. I cristiani ellenisti conferirono un altro nome alla necropoli. La chiamarono “koimeterion” (dormitorio), perché i morti attendono il risveglio, la levata ed il giudizio finale. Negli affreschi delle catacombe gli artisti raffigurarono i defunti, che pregano e attendono la risurrezione finale con lo sguardo rivolto verso il cielo.
Sulle lapidi sepolcrali incisero delle scritte, in cui auguravano ai morti un buon riposo. Gli artisti posteriori tentarono di raffigurare la scena della risurrezione universale. La loro fantasiosa inventiva impressionava assai il popolo, ma risultava sempre inadeguata, perché è impossibile visualizzare quello che oltrepassa la nostra esperienza.
Oggi la Chiesa annuncia la risurrezione del Signore alle donne e agli uomini che sono incessantemente distratti dalle attrattive e dalle suggestioni mondane. Garantisce che Gesù, realmente morto e risorto, è causa, modello e centro della nostra vita.
Si oppone a quegli intellettuali, che negano l’esistenza dei defunti, convinti che sia una credenza derivata da un’infantile immaginazione. Ci prescrive di ripetere ad ogni ricorrenza festiva e domenicale: “Credo la risurrezione della carne e la vita eterna” (Simbolo apostolico), come anche: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà” (Simbolo niceno- costantinopolitano). Alla conclusione di una messa funebre, ci accorda di cantare il ritornello: “Risorgerò, questo mio corpo vedrà il Salvatore”.
Abbiamo ricevuto il dono della fede nella risurrezione gloriosa del Signore e nella nostra futura risurrezione. Custodiamo la bellezza di questo dono. Conferiremo un orientamento più preciso alle nostre scelte, miglioreremo le relazioni interpersonali e ci manterremo protesi verso quel nuovo mondo, che ha qualche analogia con le nostre esperienze di felicità.
Padre Felice Artuso